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Riflessioni ai tempi del Covid-19

  • Immagine del redattore: rspasso
    rspasso
  • 24 mar 2020
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 7 mag 2020


Ci ha colto tutti quanti di sorpresa, nessuno escluso. Ha colto impreparati i grandi politici impegnati nelle campagne elettorali, gli studenti universitari e delle scuole superiori, i genitori, persino i bambini. Il virus ci ha fatto lo sgambetto proprio mentre stavamo per raggiungere quel traguardo, sia esso una promozione, una laurea, il diploma. E ci ha costretti, uno dopo l’altro, a fermarci dinanzi alla sua multiforme e inquietante presenza, mettendoci gli uni vicini agli altri - ma allo stesso tempo contro gli altri, perché (sfido chiunque a negarlo) uno dei primi pensieri che facciamo quando siamo tutti in fila a fare la spesa è “devo vedere come sopravvivere a questi bastardi avanti e dietro di me”. Non c’è niente di male e di assurdo nel pensarlo, né nell’ammetterlo. Così come non c’è nulla di male nell’improvvisarsi “tuttologi” sui Social Networks, esprimendo le proprie opinioni su quanti e quali contagi si avranno domani, sul se fosse possibile evitare quelli di oggi: tutti stiamo facendo ciò che è nostro di diritto, e cioè dicendo la nostra riguardo a un fatto – una parentesi, si spera, del nostro vissuto, con la quale dobbiamo in qualche modo venirne a capo.

Ma è proprio necessario farlo così?

In un primo momento è forse anche giusto cercare ad ogni costo di esprimersi in ogni modo, facendo dell’ironia, cercando di strappare una risata a quest’atmosfera – così lugubre, pesante – che ci è piombata addosso all’improvviso. Ma le risate non servono a nulla, se non sono accompagnate da un momento di riflessione. Ed è quello a cui vorrei invitare oggi voi lettori, a riflettere su quello che veramente ci ha mostrato questa epidemia, su cosa essa ha tirato fuori.

Primo: il Coronavirus ci ha mostrato che siamo vulnerabili. Noi, che viviamo ogni giorno aspettando il domani, convinti che di domani ce ne sono talmente tanti che è inutile anche pensare al se un giorno un domani potrebbe non esserci, abbiamo improvvisamente scoperto che la fine può essere vicina a noi più di quanto avessimo mai potuto immaginare. È un pensiero agghiacciante, se ci si sofferma un solo minuto in più: perché la morte, la vera, più temuta conseguenza di questo virus, è stranamente dislocata rispetto ai pensieri della nostra mente durante tutto il corso della nostra esistenza. Siamo mortali. Riflettiamo su questo. Siamo mortali e di conseguenza il nostro tempo è il dono più grande che possa mai esserci stato fatto, insieme al sole che ci riscalda le giornate, e alla pioggia che ce le rende umide. Chi siamo noi per poterci lamentare di stare in casa? Anna Frank non ha forse vissuto, come centinaia di prigionieri, ogni momento come se fosse il più importante, il più vitale, sebbene fosse chiusa in quarantena per mesi? Anche noi dovremmo farlo. E continuare sì a cantare, sì a ridere e sì a sperare ma non perché questo è l’atteggiamento della massa, ma perché all’interno di noi sentiamo che così la vita deve essere vissuta, percependo dentro noi stessi che ogni attimo ha la sua microscopica, fondamentale e vitale importanza, e va riempito di speranza, di amore e, se necessario, anche di dolore, di lutto, perché solo così potremo dire di essere ricchi davvero, di avere tutto da perdere, anche se possediamo poco.

Alla luce di tutto questo, è particolarmente angosciante per me giungere al secondo punto della riflessione: il Coronavirus ci ha mostrato quanto siamo litigiosi. Ha tirato fuori quanto di peggio può esserci tra i nostri sentimenti. L’odio tra Nord e Sud Italia divampa come mai prima d’ora, per poco le persone non si azzuffano fuori le farmacie per accaparrarsi l’ultima mascherina… Siamo ritornati allo stato brado (o forse non ci siamo mai evoluti?). Non è bello, ma è giusto ammetterlo. L’uomo “animale sociale” come lo vedeva Aristotele è una pura utopia ai tempi del Covid-19. Non sappiamo cos’è la solidarietà, perché continuiamo ad uscire di casa, critichiamo ora il presidente della regione, ora il presidente della repubblica, critichiamo nostro fratello, nostro padre, nostro figlio e la vicina della porta accanto perché Dio mio ma tutte le sere deve cantare Gigi Finizio alle 18.00?

Il che ci porta all’ultimo, dolorosissimo punto di questa riflessione, e cioè: siamo onesti. Abbiamo fallito, come popolo e come paese. Abbiamo fallito per una miriade di ragioni che, volendole elencare, potrebbero riempire interi tomi, ma che ognuno di noi, dentro di sé, ben conosce. Perché mentre i nostri nonni, e i loro bisnonni prima di loro, combattevano per questa bandiera, la innalzavano a simbolo, oggi la maggior parte di noi la mette fuori al balcone e si dimentica pure di averla messa, perché tanto l’importante è che sta lì dove la mettono anche gli altri. Abbiamo rinunciato ad avere un’identità nazionale che sia nostra, che possiamo avvertire come propria, abbiamo rinunciato ad insegnarla ai nostri figli, contribuendo allo sfacelo di questo meraviglioso paese. Perché l’Italia è un paese meraviglioso. Ripartiamo da questa frase, da questa tesi, e facciamo modo che sia essa la base per ricostruire ciò che per troppo tempo abbiamo abbandonato, lasciato marcire, e riprendiamoci un’identità – la nostra, facendo in modo di non perderla mai più.


Giulia Nania


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